1930 | La prima Coppa del Mondo

di Adalberto Bortolotti *

Con il varo del Campionato Mondiale di calcio 'open', Jules Rimet aveva coronato un sogno e avviato un'operazione destinata progressivamente a trasformarsi in un business senza confini, capace di coinvolgere interessi non solo sportivi, ma anche sociali, politici, economici, turistici, sino a diventare la manifestazione più seguita in assoluto. Gli inizi, però, non furono così esaltanti. In Uruguay l'entusiasmo per la prestigiosa investitura valse almeno a distogliere l'attenzione dalla crisi economica sempre più profonda che da tempo aveva messo in grave difficoltà un paese a lungo etichettato come la Svizzera del Sud America. Montevideo, la capitale, aveva all'epoca 600.000 abitanti, quasi un terzo dell'intera popolazione. I due stadi della capitale, il Pochitos e il Parque Central, sede dei due club più prestigiosi, Peñarol e Nacional, non erano adeguati ad accogliere tutti gli appassionati attratti dal fascino della Celeste, la Nazionale uruguayana. Fu così deciso di costruire un nuovo monumentale impianto, lo stadio Centenario, così battezzato perché proprio nel 1930 ricorreva il centenario della prima Costituzione uruguayana.

L'Estadio Centenario di Montevideo il giorno della finale: 30 luglio 1930
L'architetto Juan Scasso progettò uno stadio capace di accogliere 100.000 spettatori. Squadre di operai si misero al lavoro giorno e notte, alla luce dei riflettori e dei fari delle auto [vedi in Santuari]. Gli argentini, dall'altra parte del Rio della Plata, ci scherzavano su: "Uno stadio così grande per un paese così piccolo... ". Fu anche rappresentata una pièce teatrale dal titolo Che ci faranno in quello stadio?. Fiera e profetica arrivò la risposta uruguayana: "Vi faremo quello che abbiamo sempre fatto, vi batteremo gli argentini". Il Centenario, ancora fresco di cemento, fu terminato in cinque mesi, giusto per l'avvio del Mondiale.

Nel frattempo, in Europa nessuno voleva affrontare una trasferta così dispendiosa. Per evitare il fallimento, Rimet cominciò un suo tour personale al termine del quale riuscì a strappare quattro adesioni: Francia, Iugoslavia, Belgio, Romania. Si dice che la partecipazione romena fu carpita al re Carol grazie alle arti di seduzione di una nobildonna del tempo celebre per la sua bellezza, Magda Lupescu. Le nazionali europee (tranne la Iugoslavia, che aveva scelto un mezzo meno costoso) si imbarcarono sul Conte Verde, lussuoso transatlantico italiano, che partì da Genova ed entrò nella baia di Montevideo, accolto da una folla inneggiante, il 5 luglio 1930 dopo uno scalo a Rio de Janeiro, dove prese a bordo la squadra brasiliana. Era a bordo anche Rimet, che portava con sé la statuetta (1800 g d'oro massiccio, 30 cm d'altezza) raffigurante una vittoria alata che reggeva una coppa, opera dell'orafo Abel Lafleur. Era il trofeo destinato al vincitore del primo Campionato del Mondo nella storia del calcio.

Tredici risultarono alla fine le squadre partecipanti. L'Italia si era chiamata fuori, temendo le ritorsioni per il saccheggio dei talenti sudamericani perpetrato dai suoi club più potenti. L'Europa, che aveva in lizza solo squadre di secondo piano, non offrì neanche una testa di serie, rappresentate solo dall'Argentina, dal Brasile, dagli Stati Uniti e dall'Uruguay. Tra queste, fu il Brasile a mancare all'appello delle semifinali. La rinuncia dei giocatori paulisti aveva privato la squadra del più forte e prolifico attaccante dell'epoca, Arthur Friedenreich detto il 'Tigre', un mulatto che con i suoi 1329 gol ufficiali, realizzati in 26 anni di carriera, precedendo anche Pelé è da considerare il più grande cannoniere di ogni tempo. Il Brasile fu così eliminato dall'abile Iugoslavia. La Francia, che aveva segnato con Lucien Laurent, al 19′ della partita inaugurale contro il Messico, il primo gol nella storia dei Mondiali, dovette cedere all'Argentina. Nelle semifinali, con l'identico punteggio di 6-1, l'Argentina travolse gli Stati Uniti, mentre l'Uruguay ebbe la meglio sulla Iugoslavia, già paga della bella figura.

La Celeste campione del mondo
La finalissima fra Argentina e Uruguay, da tutti attesa e pronosticata, andò in scena al maestoso Centenario il 30 luglio 1930. L'arbitro, il belga Jan Langenus, designato tre ore prima dell'inizio del match, pretese che fosse stipulata una polizza sulla vita a favore della famiglia e che, subito dopo il fischio finale, una scorta armata lo accompagnasse a bordo del Duilio, in partenza per l'Europa. Si giocò il primo tempo con il pallone degli argentini, la ripresa con quello uruguayano. Luisito Monti, il terribile centromediano argentino, chiamato doble ancho, "doppia anta", per il suo fisico possente, chiese di non giocare perché aveva ricevuto minacce e si sentiva i nervi a pezzi. La sua richiesta non venne accolta. Anche il centravanti uruguayano Peregrino Artusi negli spogliatoi avvicinò il suo capitano, José Nasazzi, dicendogli che non se la sentiva di affrontare l'incontro. Nasazzi, el caudillo, lo guardò con disprezzo e, senza neppure interpellare il tecnico Alberto Suppicci, fece cenno a Héctor Castro, monco della mano destra, di prendere il posto del codardo. La partita fu splendida. L'Argentina chiuse il primo tempo in vantaggio per 2-1, grazie a Guillermo Stabile, el filtrador, tiratore scelto del torneo. L'Uruguay rimontò e vinse 4-2 con l'ultimo gol di Castro, el mancho, chiamato da allora 'l'uomo del destino'. Nell'euforia della festa, l'arbitro non ebbe difficoltà a raggiungere il piroscafo. Gli argentini parlarono di complotto, ma l'Uruguay aveva vinto perché, a parità, o quasi, di talento tecnico, il suo calcio era stato più concreto e razionale, ma anche guidato da un superiore senso tattico.

* Tratto da I Campionati Mondiali, in Enciclopedia dello Sport, Treccani, 2002 (© Treccani)