21 giugno 1970, Estadio Azteca, Ciudad de México
Il capitano della Seleção, Carlos Alberto Torres, alza la Coppa Rimet

Inizialmente, il trofeo era conosciuto come Coppa della Vittoria o semplicemente Vittoria, ma nel 1946 fu rinominato con il nome del presidente della FIFA Jules Rimet, che ebbe l'idea di organizzare il primo campionato del mondo. Nel 1970, il Brasile vinse per la terza volta il torneo e, come stabilito dal regolamento, si aggiudicò definitivamente il trofeo.

Nasce e si realizza l'idea dei Mondiali

di Adalberto Bortolotti *

Sin dalla fondazione della FIFA (Fédération internationale de football association), che ebbe luogo il 21 maggio 1904 a Parigi, l'idea di un Campionato di calcio aperto alle rappresentative nazionali di tutti i paesi del mondo costituì l'utopia di un illuminato gruppo di pionieri. La Francia, che già aveva avuto il merito di riesumare, a fine Ottocento, l'ideale olimpico, grazie a Pierre de Coubertin, fece ancora da traino. Francese era il primo presidente della Federazione internazionale, Robert Guérin, un giornalista dalla fervida fantasia. Suo fu un primo progetto di Campionato di calcio che parve prendere corpo l'anno seguente, quando successive adesioni accrebbero l'esiguo numero dei paesi fondatori. Con la collaborazione del suo segretario generale, l'olandese Carl A. Wilhelm Hirschmann, Guérin arrivò a stabilire un meccanismo di quattro gruppi eliminatori (Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda nel primo; Spagna, Francia, Belgio e Olanda nel secondo; Svizzera, Italia, Austria e Ungheria nel terzo; Germania, Danimarca e Svezia nel quarto), configurando in tal modo l'embrione di un Campionato europeo. Le squadre vincitrici dei quattro gruppi si sarebbero dovute affrontare in un torneo finale in Svizzera. Tuttavia, il 31 agosto 1905, quando si chiusero i termini delle iscrizioni al Campionato, nessun paese, neppure la Svizzera delegata a ospitare la fantomatica fase conclusiva, aveva formalizzato la propria adesione. Se ne dedusse che i tempi non erano ancora maturi.

La tappa successiva fu di ufficializzare la presenza del calcio nei Giochi Olimpici e la cosa funzionò sino a quando non si determinò la frattura insanabile fra professionismo e dilettantismo, alle cui severe regole erano allora ancorati tutti i partecipanti alle Olimpiadi. Ne pagò le conseguenze l'Inghilterra, che avendo adottato, in anticipo su tutti gli altri, il professionismo nel calcio, fu costretta a inviare al torneo olimpico rappresentative di secondo piano, regolarmente maltrattate dai professionisti 'mascherati' delle altre nazioni.

Jules Rimet
Nel 1921 salì alla presidenza della FIFA un altro francese, Jules Rimet, che diede l'impulso decisivo all'idea di un Campionato di calcio autonomo pur scontrandosi a lungo con il Comitato olimpico internazionale, restio a privarsi della disciplina che gli garantiva il maggior seguito e i più ricchi incassi. Il 10 dicembre 1926, nella riunione dell'esecutivo a Parigi, la FIFA nominò una commissione per studiare la formula di un Campionato di calcio aperto a tutte le federazioni iscritte. Ne fecero parte lo svizzero Bonnet, l'austriaco Meisl, l'italiano Ferretti, il tedesco Linnemann, l'ungherese Fischer e il braccio destro di Rimet, Henry Delaunay, francese. Il 18 maggio 1929, durante il congresso di Barcellona, furono approvate le proposte della commissione articolate in quattro punti: 1) la FIFA avrebbe organizzato ogni quattro anni un Campionato Mondiale di calcio a partire dal 1930; 2) tutte le Federazioni associate, senza distinzione fra professionisti o amatori, avrebbero potuto iscriversi al Campionato (ciò avrebbe risolto il conflitto con i Giochi Olimpici che avrebbero continuato a ospitare nel proprio ambito un torneo di calcio riservato esclusivamente a formazioni dilettantistiche); 3) nel caso di iscrizioni superiori a 30, si sarebbero disputati incontri eliminatori; 4) tutte le spese sarebbero state a carico del paese organizzatore.

In un clima di grande entusiasmo, la FIFA scelse la sede del primo Campionato del Mondo tra i sei paesi pretendenti, di cui cinque europei (Svezia, Spagna, Ungheria, Italia, Olanda) e uno sudamericano (l'Uruguay, in possesso dei migliori titoli sportivi come campione olimpico nel 1924 e nel 1928). L'Olanda, la Svezia e l'Ungheria ritirarono la loro candidatura in favore dell'Italia, che a sua volta accondiscese a lasciare via libera all'Uruguay in cambio della priorità per i successivi Mondiali del 1934. Restava solo la Spagna, ma Ricardo Cabot, segretario generale della Federazione iberica, sciolse ogni dubbio prendendo la parola in un silenzio carico di tensione: "Il calcio spagnolo è disposto a lottare con i fratelli del Sud America soltanto su un campo di gioco, mai in un congresso della FIFA, oltretutto tenuto in una città spagnola". Erano tempi di grande cavalleria. Fu scelto anche il nome della manifestazione: 'Coppa del Mondo', successivamente rinominata 'Coppa Rimet' in omaggio al suo artefice.

* Tratto da I Campionati Mondiali, in Enciclopedia dello Sport, Treccani, 2002 (© Treccani)


§ Vedi anche Les prémices de la Coupe du Monde de la FIFA, storia ufficiale della FIFA.

Jules Rimet

(Theuley les Lavoncourt, 24 ottobre 1873-Suresnes, 15 ottobre 1956)

di Ruggero Palombo *

1966
È conosciuto come 'il padre della Coppa del Mondo'. Nato in una famiglia della piccola borghesia, Rimet si trasferì molto giovane a Parigi, dove si impegnò nel cattolicesimo sociale, iscrivendosi alla Democrazia Cristiana, perorando la collaborazione tra Chiesa e popolo, inseguendo un riformismo graduale, scoprendo infine il calcio come veicolo di emancipazione e strumento di promozione della solidarietà. Fondatore dei Red Star nel marzo 1897, della Lega del football nel 1910, della Federazione francese di football nel 1919, fu nominato presidente della FIFA nel 1921 (rivestì l'incarico fino al 1954). Nel 1929 fece approvare al congresso della FIFA di Amsterdam il progetto di un Campionato Mondiale da disputarsi ogni quattro anni, e convinse l'Uruguay a organizzarne la prima edizione (1930), giocando sull'orgoglio di un paese che proprio quell'anno festeggiava un secolo di indipendenza; poi, 'in nome dello sport puro e della fraternità', assegnò la seconda edizione all'Italia fascista, che ne fece uno strumento di propaganda. Per il Mondiale del 1938 consentì alla Germania, che aveva appena annesso l'Austria, di schierare cinque giocatori austriaci e di escludere quelli di origine ebraica. Nel 1948 la Coppa del Mondo prese il nome di Coppa Jules Rimet, per decisione della stessa FIFA da lui presieduta (la Coppa Rimet, che avrebbe dovuto essere consegnata definitivamente al paese che l'avesse vinta per tre volte, anche non consecutive, fu conquistata nel 1970 dal Brasile, e sostituita a partire dal 1974 dalla Coppa FIFA). Rimet è morto nel 1956, in solitudine, dimenticato da tutti. In occasione dei Mondiali del 1998 in Francia, la sua figura è stata rilanciata attraverso la Associazione per la valorizzazione dell'opera di Jules Rimet.

* Tratto dalla Enciclopedia dello Sport, Treccani, 2002 (© Treccani)

Bibliografia
- Jules Rimet, L'histoire merveilleuse de la Coupe du mondeMonaco, Union européenne d'éditions,‎ 1954
- Jean-Yves Guillain, La Coupe du monde de football. L'œuvre de Jules RimetParis, Éditions Amphora,‎ 1998 [scheda]
- Laurent Lasne, Jules Rimet, la foi dans le football, Saint-Cloud, Le Tiers Livre,‎ 2008 [scheda]

1930 | La prima Coppa del Mondo

di Adalberto Bortolotti *

Con il varo del Campionato Mondiale di calcio 'open', Jules Rimet aveva coronato un sogno e avviato un'operazione destinata progressivamente a trasformarsi in un business senza confini, capace di coinvolgere interessi non solo sportivi, ma anche sociali, politici, economici, turistici, sino a diventare la manifestazione più seguita in assoluto. Gli inizi, però, non furono così esaltanti. In Uruguay l'entusiasmo per la prestigiosa investitura valse almeno a distogliere l'attenzione dalla crisi economica sempre più profonda che da tempo aveva messo in grave difficoltà un paese a lungo etichettato come la Svizzera del Sud America. Montevideo, la capitale, aveva all'epoca 600.000 abitanti, quasi un terzo dell'intera popolazione. I due stadi della capitale, il Pochitos e il Parque Central, sede dei due club più prestigiosi, Peñarol e Nacional, non erano adeguati ad accogliere tutti gli appassionati attratti dal fascino della Celeste, la Nazionale uruguayana. Fu così deciso di costruire un nuovo monumentale impianto, lo stadio Centenario, così battezzato perché proprio nel 1930 ricorreva il centenario della prima Costituzione uruguayana.

L'Estadio Centenario di Montevideo il giorno della finale: 30 luglio 1930
L'architetto Juan Scasso progettò uno stadio capace di accogliere 100.000 spettatori. Squadre di operai si misero al lavoro giorno e notte, alla luce dei riflettori e dei fari delle auto [vedi in Santuari]. Gli argentini, dall'altra parte del Rio della Plata, ci scherzavano su: "Uno stadio così grande per un paese così piccolo... ". Fu anche rappresentata una pièce teatrale dal titolo Che ci faranno in quello stadio?. Fiera e profetica arrivò la risposta uruguayana: "Vi faremo quello che abbiamo sempre fatto, vi batteremo gli argentini". Il Centenario, ancora fresco di cemento, fu terminato in cinque mesi, giusto per l'avvio del Mondiale.

Nel frattempo, in Europa nessuno voleva affrontare una trasferta così dispendiosa. Per evitare il fallimento, Rimet cominciò un suo tour personale al termine del quale riuscì a strappare quattro adesioni: Francia, Iugoslavia, Belgio, Romania. Si dice che la partecipazione romena fu carpita al re Carol grazie alle arti di seduzione di una nobildonna del tempo celebre per la sua bellezza, Magda Lupescu. Le nazionali europee (tranne la Iugoslavia, che aveva scelto un mezzo meno costoso) si imbarcarono sul Conte Verde, lussuoso transatlantico italiano, che partì da Genova ed entrò nella baia di Montevideo, accolto da una folla inneggiante, il 5 luglio 1930 dopo uno scalo a Rio de Janeiro, dove prese a bordo la squadra brasiliana. Era a bordo anche Rimet, che portava con sé la statuetta (1800 g d'oro massiccio, 30 cm d'altezza) raffigurante una vittoria alata che reggeva una coppa, opera dell'orafo Abel Lafleur. Era il trofeo destinato al vincitore del primo Campionato del Mondo nella storia del calcio.

Tredici risultarono alla fine le squadre partecipanti. L'Italia si era chiamata fuori, temendo le ritorsioni per il saccheggio dei talenti sudamericani perpetrato dai suoi club più potenti. L'Europa, che aveva in lizza solo squadre di secondo piano, non offrì neanche una testa di serie, rappresentate solo dall'Argentina, dal Brasile, dagli Stati Uniti e dall'Uruguay. Tra queste, fu il Brasile a mancare all'appello delle semifinali. La rinuncia dei giocatori paulisti aveva privato la squadra del più forte e prolifico attaccante dell'epoca, Arthur Friedenreich detto il 'Tigre', un mulatto che con i suoi 1329 gol ufficiali, realizzati in 26 anni di carriera, precedendo anche Pelé è da considerare il più grande cannoniere di ogni tempo. Il Brasile fu così eliminato dall'abile Iugoslavia. La Francia, che aveva segnato con Lucien Laurent, al 19′ della partita inaugurale contro il Messico, il primo gol nella storia dei Mondiali, dovette cedere all'Argentina. Nelle semifinali, con l'identico punteggio di 6-1, l'Argentina travolse gli Stati Uniti, mentre l'Uruguay ebbe la meglio sulla Iugoslavia, già paga della bella figura.

La Celeste campione del mondo
La finalissima fra Argentina e Uruguay, da tutti attesa e pronosticata, andò in scena al maestoso Centenario il 30 luglio 1930. L'arbitro, il belga Jan Langenus, designato tre ore prima dell'inizio del match, pretese che fosse stipulata una polizza sulla vita a favore della famiglia e che, subito dopo il fischio finale, una scorta armata lo accompagnasse a bordo del Duilio, in partenza per l'Europa. Si giocò il primo tempo con il pallone degli argentini, la ripresa con quello uruguayano. Luisito Monti, il terribile centromediano argentino, chiamato doble ancho, "doppia anta", per il suo fisico possente, chiese di non giocare perché aveva ricevuto minacce e si sentiva i nervi a pezzi. La sua richiesta non venne accolta. Anche il centravanti uruguayano Peregrino Artusi negli spogliatoi avvicinò il suo capitano, José Nasazzi, dicendogli che non se la sentiva di affrontare l'incontro. Nasazzi, el caudillo, lo guardò con disprezzo e, senza neppure interpellare il tecnico Alberto Suppicci, fece cenno a Héctor Castro, monco della mano destra, di prendere il posto del codardo. La partita fu splendida. L'Argentina chiuse il primo tempo in vantaggio per 2-1, grazie a Guillermo Stabile, el filtrador, tiratore scelto del torneo. L'Uruguay rimontò e vinse 4-2 con l'ultimo gol di Castro, el mancho, chiamato da allora 'l'uomo del destino'. Nell'euforia della festa, l'arbitro non ebbe difficoltà a raggiungere il piroscafo. Gli argentini parlarono di complotto, ma l'Uruguay aveva vinto perché, a parità, o quasi, di talento tecnico, il suo calcio era stato più concreto e razionale, ma anche guidato da un superiore senso tattico.

* Tratto da I Campionati Mondiali, in Enciclopedia dello Sport, Treccani, 2002 (© Treccani)

1934 | Il trionfo degli azzurri di Pozzo

di Adalberto Bortolotti *

In Italia, nei primi anni Trenta, il calcio viveva una sorta di età dell'oro, favorito dal regime fascista che vi identificava una formidabile fabbrica di consenso. Per modernità e capillarità di strutture, l'Italia era seconda, forse, alla sola Inghilterra. Stadi nuovi e imponenti erano appena sorti, o andavano completandosi, coniugando la grandiosità richiesta dall'epoca con il profondo rispetto dei canoni estetici: basti pensare agli impianti di Firenze, Bologna, Torino, o allo stesso Flaminio di Roma, che allora si chiamava stadio del PNF (Partito nazionale fascista). Non stupì, quindi, che al congresso di Stoccolma del 1932 l'Italia venisse prescelta, con votazione quasi unanime, per ospitare la seconda edizione del Campionato del Mondo, la prima in Europa.

La copertina del supplemento settimanale
del "Corriere della sera" del 17 giugno 1934
celebra la vittoria degli Azzurri contro la Cecoslovacchia
Com'era prevedibile, la sede europea fece impennare il numero delle iscrizioni, che furono inizialmente 32 e poi si ridussero a 29 per il forfait di Cile, Perù e Turchia. Fu uno strepitoso successo tecnico e organizzativo, ma anche la rivincita europea, dopo l'en plein sudamericano del 1930. Del resto, il vecchio continente trovò scarsa resistenza. L'Uruguay, campione in carica, disertò per ritorsione verso l'Italia, assente quattro anni prima. L'Argentina mandò una squadra di dilettanti nel timore, fondato, che i suoi campioni non sarebbero tornati indietro, ingaggiati dai club italiani a caccia di attrazioni esotiche. Il Brasile, invischiato nelle consuete diatribe interne, inserì un paio di fuoriclasse, Leonidas e Waldemar de Brito, in una nazionale di piccolo cabotaggio.

Erano invece presenti in blocco, e nel ruolo di favorite, le stelle del calcio danubiano, Austria e Cecoslovacchia in particolare, mentre restava fuori l'Inghilterra in perenne e sdegnoso contrasto con la Federazione internazionale. L'Italia rappresentava, con la Spagna del mitico Ricardo Zamora, il fascino del calcio latino. Dal 1929 Vittorio Pozzo era tornato alla guida tecnica degli azzurri, dopo l'interregno di Augusto Rangone, illuminato dal bronzo olimpico vinto ad Amsterdam nel 1928. Rigido, autoritario, con una visione altamente patriottica dell'impegno agonistico, Pozzo era l'uomo giusto per i tempi, ma era anche un tecnico di prim'ordine, innamorato del calcio legato ai più grandi personaggi del tempo, da Hugo Meisl, il profeta del Wunderteam austriaco, a Herbert Chapman, l'inventore del 'sistema' inglese. Pozzo allestì con cura una squadra attenta più agli equilibri collettivi che ai valori individuali (escluse dalla nazionale Fulvio Bernardini perché "troppo bravo"), tatticamente sofisticata, in grado di arricchire il tradizionale 'metodo' danubiano con l'arma, prettamente italica, del contropiede. L'Italia, anche a causa di sorteggi sfavorevoli, trovò sul proprio cammino ostacoli durissimi, superati tutti, forse con qualche aiuto, ma certo con grande merito. Chi parlò di vittoria di regime, e furono in tanti fuori dai confini, fu smentito dal bis che quattro anni dopo l'Italia di Pozzo concesse, giocando all'estero e in un ambiente carico di ostilità.

Gli azzurri cominciarono travolgendo gli Stati Uniti negli ottavi con il risultato di 7-1, ma nei quarti incontrarono la Spagna e fu battaglia feroce, con un risultato finale di pareggio anche dopo i supplementari. Alla ripetizione del match, il giorno seguente, non c'era Zamora a difendere la porta spagnola e molte furono le malignità su quel decisivo forfait. Giuseppe Meazza, che in carriera mai riuscì a battere Zamora, si ripagò con il suo sostituto: il risultato di 1-0 rimase sino alla fine e alla Spagna fu annullato il gol del pareggio.

La Nazionale italiana
Da sinistra Monti, Pizziolo, Schiavio, Orsi, Ferrari, Rosetta, Meazza, Combi, Guarisi,
Allemandi, Bertolini e le riserve Monzeglio, Guaita e Caranna
In semifinale l'Italia incontrò la terribile Austria, uscita vincitrice a sua volta da un derby piuttosto acceso con l'Ungheria. Ancora 1-0 per gli azzurri, firmato da Enrico Guaita, uno dei tre oriundi, con l'ala sinistra Mumo Orsi e il centromediano Luisito Monti,
lo stesso che aveva difeso i colori argentini nel precedente Mondiale. In finale era approdata più agevolmente la Cecoslovacchia, con un perentorio 3-0 ai tedeschi, che giocavano il 'sistema', unica eccezione in un fronte compatto di 'metodisti'.

La finale andò in scena a Roma il 10 giugno 1934. Già la voce metallica di Nicolò Carosio scandiva via radio le emozioni del pallone. I cecoslovacchi controllarono magistralmente la partita per l'intero primo tempo, grazie al fraseggio insistito e alla manovra ricamata dal loro centrocampo. Il portiere Frantisek Planicka restava irraggiungibile per i nostri attaccanti: il centravanti bolognese Angelo Schiavio, l'interno di punta Meazza dell'Inter, l'argentino Guaita della Roma. Quando, a venti minuti dalla fine, Antonin Puc, con un tiro a effetto, trovò il gol quasi dalla linea di fondo, all'Italia tutto parve perduto. Un palo di Frantisek Svoboda negò il raddoppio alla Cecoslovacchia. Solo una prodezza in extremis del minuscolo Raimundo Orsi valse la proroga dei tempi supplementari. Pozzo ordinò a Schiavio e a Guaita di scambiarsi i ruoli. A Schiavio essere dirottato all'ala parve un affronto. Obbedì, ma l'istinto lo portò al centro, dopo sette minuti di overtime, per incrociare un lancio di Meazza e batterlo a rete, fuori della portata di Planicka. Così maturò il trionfo. Dopo quel gol storico e decisivo, Schiavio lasciò la nazionale. Aveva 29 anni, una lunga carriera davanti; ma si chiese: "Dopo questo, cosa potrei fare di più?".

* Tratto da I Campionati Mondiali, in Enciclopedia dello Sport, Treccani, 2002 (© Treccani)

1938 | Il bis dell'Italia

Le Havre, pubblicità mobile
La vittoria italiana nel Mondiale giocato in casa del 1934 aveva scatenato un'autentica caccia alle streghe, nella quale la stampa francese si era segnalata in prima fila. Proprio in Francia, l'Italia di Pozzo dovette difendere il suo titolo nella terza edizione iridata. Grazie alla decisiva influenza di Jules Rimet, la Francia aveva ottenuto l'organizzazione del 1938, in spregio alla regola dell'alternanza fra Europa e Sud America. Offesa, l'Argentina aveva subito annunciato il suo forfait e poiché l'Uruguay insisteva nel rifiuto di varcare l'oceano, la presenza americana si ridusse a Brasile e Cuba. In compenso, grazie alle Indie Olandesi, si registrò la prima presenza di una nazionale asiatica. Il Campionato del Mondo andava allargando i suoi confini, ma la manifestazione risentiva del pesante clima politico dell'Europa, minacciata dai venti di guerra. La Spagna, generosa e sfortunata protagonista del Mondiale del 1934, era impossibilitata a partecipare alla manifestazione dalla guerra civile. L'Austria in seguito all'Anschluss nazista era stata inglobata, anche calcisticamente, nella Germania: in teoria ne sarebbe dovuta scaturire una squadra imbattibile, ma l'operazione fallì miseramente come tutte le unioni cementate non con il libero consenso, ma con la forza e il sopruso. Tuttavia, assenze così importanti (Argentina, Uruguay, Austria, Spagna) non compromisero il livello tecnico della manifestazione, che si giovò del miglior Brasile visto sino ad allora. Leonidas, fuggevolmente ammirato a Roma quattro anni prima, era diventato il più forte centravanti del mondo: lo chiamavano il 'diamante nero', perché in campo sembrava sprigionare autentiche magie, muovendosi finalmente in una squadra altamente competitiva. Il difensore Domingos da Guia, Tim, Brandão, Zezé Procopio, Romeu (un oriundo italiano, il cui nome era Romeo Pellicciari) erano altrettanti campioni. Sicuro di vincere, quel Brasile fu tradito solo dalla presunzione, dopo aver regalato ai francesi spettacoli di altissimo livello.

Il calcio azzurro viveva il suo momento migliore. Dopo il titolo mondiale a Roma, l'Italia aveva conquistato anche la Coppa Internazionale (una sorta di Campionato europeo) nel 1935 e l'oro olimpico nel 1936, a Berlino, con una squadra di studenti. Dalla squadra olimpica, Pozzo promosse alla nazionale maggiore i terzini Alfredo Foni e Pietro Rava, e il mediano Ugo Locatelli. Luisito Monti, andato nel frattempo in pensione, fu sostituito da un altro oriundo, l'uruguayano Michele Andreolo, meno potente ma più tecnico. In attacco, ferma la coppia di mezzeali Giovanni Ferrari e Meazza, il centravanti era Silvio Piola, le ali Pietro Pasinati e Pietro Ferraris (II), poi sostituiti dal bolognese Amedeo Biavati (l'inventore del 'passo doppio') e da Gino Colaussi.

Gli azzurri debuttarono a Marsiglia, in un ambiente ostile. Migliaia di fuoriusciti (la Francia accoglieva generosamente i perseguitati dal fascismo) esplosero in un coro assordante di fischi quando i giocatori di Pozzo scesero in campo rivolgendosi al pubblico con il saluto romano. Il match con la Norvegia si rivelò in salita e solo nei supplementari Piola lo indirizzò a favore dell'Italia. Nei quarti, l'impegno a Parigi contro la Francia padrona di casa minacciava un'altra tempesta. Si ripeterono i fischi, ma si ripeté pure Piola, con due gol, entrambi su millimetrici lanci di Biavati, dopo che il primo tempo si era chiuso 1-1. Convinto di aver finalmente trovato la formazione ideale, Pozzo si accinse alla prova più dura: la semifinale, ancora a Marsiglia, contro la stella del torneo, quel Brasile che segnava gol a grappoli e incantava con il suo calcio danzato.

19 giugno 1938, Parc Lescure, Bordeaux
Leônidas da Silva, capocannoniere del torneo, contro la difesa svedese
Uscito vincitore da una durissima battaglia con la Cecoslovacchia, la finalista di Roma, che aveva richiesto la ripetizione del match, il Brasile si sentiva il titolo in tasca. Già prenotato l'aereo per la finalissima di Parigi, il tecnico Ademir Pimenta decise di concedere un turno di riposo al suo gioiello Leonidas, perché fosse fresco e riposato per la finale. I 40.000 spettatori di Marsiglia erano tutti per gli 'artisti' sudamericani; gli azzurri potevano contare solo sul tifo di un migliaio di fedelissimi arrivati dall'Italia. Domingos da Guia fu incollato a Piola con l'incarico di annullare il temuto goleador italiano. Pozzo si limitò ad arretrare i suoi mediani, a maggior protezione della difesa. Andreolo doveva lanciare lungo per Biavati (uno schema che i due adottavano nel Bologna), dei cui cross approfittava Piola. L'Italia giocò di puro contenimento nel primo tempo, per sfruttare a distanza la sua maggior freschezza atletica. Puntualmente il Brasile mostrò segni di stanchezza dopo l'intervallo. Un 'missile' di Colaussi lanciato da 20 metri risultò imparabile per il portiere Fritz Walter. Quattro minuti dopo, Domingos da Guia atterrò Piola, lanciato a rete. Il rigore fu battuto da Meazza con glaciale freddezza. Il Brasile era al tappeto. Non c'era Leonidas a guidarne la riscossa. Trovò il gol della bandiera solo a giochi fatti, con Romeu. Quella fu la vera finale: 2-1 per l'Italia. A Parigi, contro l'elegante ma più fragile Ungheria, l'Italia vinse senza patemi con un largo 4-2 (doppiette di Piola e Colaussi), che indusse all'applauso anche i recalcitranti francesi. Questa volta nessuna ombra si allungava sul successo azzurro. Cinque italiani, Rava, Andreolo, Biavati, Meazza e Colaussi, figurarono nella formazione ideale votata dai giornalisti di tutti i paesi presenti al torneo.

1950 | L'Uruguay gela il Maracaná

di Adalberto Bortolotti *

Il Mondiale del 1950 fu memorabile perché si svolse, dopo le sanguinose follie della guerra, in un clima di normalità e di ritorno alla ragione, ma nella storia del calcio resterà scolpito soprattutto per la sua incredibile conclusione, insieme grottesca e tragica. La Coppa del Mondo nel frattempo era stata ribattezzata Coppa Rimet e si era stabilito che il trofeo sarebbe stato assegnato alla squadra che avesse vinto i Mondiali per tre volte. L'Italia, dopo la doppia vittoria delle edizioni di Roma 1934 e Parigi 1938, era la prima candidata ad aggiudicarsi il titolo in via definitiva.

29 giugno 1950, Estádio Independência, Belo Horizonte
L'oriundo haitiano Joseph Edouard Gaetjens, attaccante in prestito agli USA
viene portato in trionfo alla fine della partita shock per i sedicenti "maestri"
Nel congresso tenuto dalla FIFA nel 1946, il Brasile aveva ottenuto senza difficoltà l'organizzazione del primo Mondiale postbellico. Due consecutive edizioni europee rendevano obbligatoria la scelta sudamericana e l'Argentina, che poteva essere un'alternativa seria, si fece da parte, prostrata dal lungo sciopero dei calciatori che aveva determinato l'esodo dei migliori talenti nel faraonico calcio colombiano di quegli anni. Già ricco di impianti sportivi, il Brasile volle celebrare l'avvenimento costruendo a Rio de Janeiro il più grande stadio del mondo, il Maracaná. Era il tempio del football, destinato a celebrare l'immancabile trionfo della nazionale di casa. Un solo slogan si propagava da un angolo all'altro del paese: O Brasil ha de ganhar, "il Brasile deve vincere". Dietro l'entusiasmo, lievitavano però le spese sino ad agitare lo spettro del fallimento. Per aumentare gli incassi (più partite, più soldi) fu così scelta una nuova formula, non più a eliminazione diretta, ma a gironi. Tuttavia, delle 16 finaliste (Brasile e Italia ammesse di diritto, le altre uscite dalle qualificazioni), tre (Scozia, Turchia e India) diedero forfait e così i gironi furono 'zoppi': due a quattro squadre, uno a tre, e un altro addirittura a due. Le quattro vincitrici avrebbero dato vita a un ulteriore girone finale. Capitato nel gruppo a due con la Bolivia, l'Uruguay si trovò nel gruppo delle quattro finaliste senza colpo ferire. I brasiliani non si resero conto di aver lanciato un boomerang, che li avrebbe tramortiti.

La grande novità era il debutto, in un Campionato del Mondo, dei maestri inglesi, che sino ad allora avevano sdegnosamente rifiutato di partecipare. L'Inghilterra, per ospitare le Olimpiadi del 1948, era rientrata nell'alveo internazionale, portandosi al seguito le altre federazioni britanniche. Era un momento felice per il calcio inglese, ricco di campioni quali Stanley Matthews, Alf Ramsey, William (Billy) Wright, Tom Finney, Stanley Mortensen. Nella marcia di avvicinamento al Brasile, la nazionale inglese aveva battuto 10-0 il Portogallo a Lisbona, 4-0 l'Italia di Pozzo a Torino (nel 1948), 3-1 la Francia a Parigi, 5-2 il Belgio a Bruxelles. Nei pronostici era considerata il naturale antagonista dei padroni di casa. L'Italia godeva di qualche considerazione soprattutto per essere stata due volte campione in carica più che per il suo effettivo valore. Era temuto l'Uruguay, che rientrava in lizza dopo i forfait in Europa ed era guidato in campo da un genio del pallone, 'Pepe' Schiaffino.

L'Inghilterra suscitò subito un enorme clamore, facendosi battere 1-0 dai dilettanti statunitensi. La notizia appariva incredibile, al punto che a Londra il primo dispaccio di agenzia, "England-USA 0-1" fu ritenuto un errore di stampa e corretto in 10-1. Subito dopo, tuttavia, arrivarono le dolorose conferme. L'autore di quello storico gol statunitense era in realtà un haitiano, Joseph Gaetyens, che sarebbe tornato alla ribalta della cronaca molti anni dopo in circostanze tragiche: a Haiti fu accusato di attività sovversive dal regime di Doc Duvalier e giustiziato dai ton-ton macoutes, i miliziani del dittatore.

16 luglio 1950, Estádio Maracanã, Rio de Janeiro
L'attimo della tragedia nazionale
Non più affidata a Pozzo (allontanato dopo l'infelice esito del torneo olimpico a Londra), anche l'Italia fece una rapida fine. Ancora sotto shock per la tragedia di Superga, che nel 1949 aveva annientato il grande Torino, i calciatori italiani non vollero affrontare il viaggio aereo e raggiunsero il Brasile per nave. Stanchi e male allenati, furono battuti dalla Svezia e a nulla valse la vittoria sul Paraguay. Svezia e Uruguay si qualificarono per il girone finale, con la Spagna che ridimensionò le illusioni degli Stati Uniti e ovviamente il Brasile, il cui attacco 'atomico' si era esaltato in una serie di goleade. La prima linea Friaça-Zizinho-Ademir-Jair-Chico stroncò la Spagna (6-1) e la Svezia (7-1), mentre l'Uruguay superò di misura la Svezia (3-2), e pareggiò con la Spagna (2-2). Alla sfida finale, il Brasile arrivò con un punto in più. Gli sarebbe bastato pareggiare, per conquistare il titolo, ma ovviamente giocò cercando di stravincere. Passato in vantaggio con Friaça, continuò ad aggredire, offrendo voragini al contropiede. Schiaffino segnò il pari; Ghiggia, a dieci minuti dalla fine, colse di sorpresa il portiere Barbosa e regalò all'Uruguay il secondo Mondiale, dopo quello inaugurale del 1930. Al fischio finale, tifosi disperati si lanciarono dall'alto del Maracaná, con un sanguinoso bilancio di morti e feriti. Suicidi in massa seguirono in tutto il Brasile. Il commissario tecnico Flavio Costa e il portiere Macyr Barbosa, minacciati di morte, dovettero lasciare il paese con le loro famiglie. Nunca mais, "mai più", titolavano le gazzette brasiliane.

* Tratto da I Campionati Mondiali, in Enciclopedia dello Sport, Treccani, 2002 (© Treccani)

1954 | La Germania Ovest beffa l'Ungheria

di Adalberto Bortolotti *

Nell'intervallo che separò la Coppa Rimet del 1950 dalla successiva edizione in Svizzera (il solo paese europeo uscito indenne dalle rovine della guerra e l'unico in grado di offrire le garanzie economiche richieste, dato che le finanze dei vincitori erano state prosciugate non meno di quelle dei vinti), era accaduto qualcosa che avrebbe lasciato il segno nella storia del calcio. Il 25 novembre 1953, nello stadio imperiale di Wembley, davanti a 100.000 inglesi ammutoliti, era caduto in frantumi l'home record, il primato d'imbattibilità della nazionale inglese, che, dalla nascita del calcio moderno, non era mai stata sconfitta, sul proprio terreno, da un avversario continentale [vedi]. Artefice della straordinaria impresa, corredata da un punteggio inequivocabile (6-3), era stata l'Ungheria, assemblata da Gustav Sebes [vedi] sin dal primo dopoguerra e giunta a piena maturazione agli albori degli anni Cinquanta. La squadra entrò nella leggenda anche per una sensazionale serie positiva: rimase infatti imbattuta per oltre quattro anni, dal 14 maggio 1950 al 4 luglio 1954, nel corso dei quali giocò 31 partite, vincendone 28, pareggiandone 3, segnando 142 gol e subendone 32, pur avendo incontrato, spesso in trasferta, le più forti nazionali del mondo. Nel periodo magico rientrava l'oro olimpico conquistato a Helsinki nel 1952. La Grande Ungheria, che molti critici ritengono tuttora la più forte e completa formazione mai apparsa su un campo di calcio, fu chiamata in patria l'Aranycsapat, la "squadra d'oro" [vedi]. La data della sua prima sconfitta coincise proprio con la finalissima della Coppa Rimet, perduta contro la Germania Occidentale a Berna.

17 giugno 1954, Stade Olympique de la Pontaise, Lausanne
L'inizio della fugace apparizione azzurra
Quattro, almeno, sono i motivi per i quali il torneo del 1954 è degno di essere ricordato: 1) il suo eccezionale livello tecnico, forse insuperato, tradottosi in una stupefacente media-gol di 5,38 per partita e illuminato dalla presenza di fuoriclasse epocali: gli ungheresi Ferenc Puskas, Nandor Hidegkuti, Joszef Boszyk, Sandor Kocsis, i brasiliani Didí, Julinho, Dialma e Nilton Santos, gli uruguayani Juan Alberto Schiaffino e José Santamaria, lo jugoslavo Vladimir Beara, il francese Raymond Kopa, l'austriaco Ernst Ocwirk, l'inglese Stanley Matthews, l'italiano Giampiero Boniperti, i tedeschi Helmut Rahn e Fritz Walter; 2) la sua formula a gironi 'aperti' (ogni squadra incontrava solo due delle tre compagne di gruppo), che rappresentò un capolavoro di miopia tecnica e antisportività, vera istigazione alla combine; 3) la presenza, per la prima volta in un mondiale di calcio, della televisione, che segnò il definitivo decollo della manifestazione e la sua diffusione universale, facendone conoscere a tutti le coinvolgenti emozioni; 4) la clamorosa sorpresa determinatasi nella finalissima e verosimilmente dovuta anche ‒ ma questo lo si sospettò soltanto dopo ‒ al sofisticato uso della chimica, come additivo alle risorse tecniche e atletiche. Se il mancato successo del Brasile, nel 1950, aveva mortificato tutto un popolo, la sconfitta della Grande Ungheria a Berna fu una colossale ingiustizia sportiva e un affronto al calcio.

Trentacinque adesioni rappresentarono un successo, anche se l'Argentina confermò il suo forfait e l'URSS non ritenne ancora giunto il momento di presentarsi sulla massima ribalta. Erano invece ricomparse Germania e Austria. Dal 1948 era caduto l'assurdo veto della FIFA che imponeva ai paesi membri di evitare i contatti calcistici con gli sconfitti della guerra, ma solo alla fine degli anni Cinquanta la Germania era riuscita a mandare in campo la propria nazionale, a Stoccarda, contro la neutrale Svizzera. Nessuno poteva pensare che, in meno di quattro anni, il calcio tedesco sarebbe riemerso così prepotentemente da conquistare addirittura il titolo mondiale.

30 giugno 1954, Stade Olympique de la Pontaise, Lausanne
Il gol decisivo di Sandor Kocsis all'Uruguay per l'accesso alla finale 
La formula dei gironi aperti fece una sola vittima illustre, l'Italia. Guidati da Lajos Czeizler, gli azzurri si fecero prima battere di misura dagli svizzeri padroni di casa, poi travolsero il quotato Belgio, infine (nella bella) cedettero ancora agli elvetici, ma in maniera nettissima. Le sole formazioni in grado di tenere testa all'Ungheria apparivano Brasile e Uruguay, reduci dalla finalissima di quattro anni prima e forse ancora più forti di allora. L'Ungheria dovette affrontarle entrambe, nei quarti e in semifinale, venendone a capo, con l'identico punteggio di 4-2, al termine di partite bellissime, ma estremamente dispendiose. L'abile Germania Ovest di Sepp Herberger era andata avanti con maggiore agio, prevalendo sulla Jugoslavia nei quarti e sull'Austria in semifinale. Nonostante ciò, la finale appariva una formalità. Nei gironi preliminari, Ungheria e Germania Ovest si erano già affrontate, ed era stato un massacro: 8-3. Gli ungheresi si sentivano la vittoria in tasca, sottovalutando il fatto che in quell'occasione i tedeschi avevano fatto spazio ai rincalzi. Puskas, infortunato, pretese di giocare ugualmente: era il capitano, voleva essere lui ad alzare al cielo la Coppa. Si giocò sotto una pioggia battente e dopo otto minuti l'Ungheria conduceva già per 2-0. Ma aveva anche finito l'energia, mentre la Germania Ovest correva sempre più forte. Raggiunto il pareggio all'intervallo, i tedeschi aspettarono sino a sei minuti dalla fine per sferrare, con il potentissimo Rahn, il colpo finale. Puskas si era trascinato per tutta la ripresa come un fantasma. L'orgoglio lo sospinse a un'ultima reazione. Segnò il 3-3, annullato per fuorigioco.

Quando, qualche tempo dopo, quasi tutti i giocatori di quella Germania furono colpiti dall'itterizia, si rafforzò il sospetto che l'energia superiore che li aveva trascinati nell'impresa fosse dovuta all'uso di farmaci. La Grande Ungheria rimase una regina senza corona, uno dei tanti paradossi del calcio.

* Tratto da I Campionati Mondiali, in Enciclopedia dello Sport, Treccani, 2002 (© Treccani)

1958 | Il Brasile di Pelé stupisce il mondo

di Adalberto Bortolotti *

Per far uscire il Brasile dal limbo delle occasioni perdute, ci vollero un corpulento oriundo napoletano, Vicente Feola, detto o gordo, "il grassone", e un giovane di colore non ancora diciottenne, Edson Arantes do Nascimento, detto Pelé. Feola, rischiando in proprio, riuscì a dare un'organizzazione tattica e un razionale modulo di gioco a quei fenomeni inguaribilmente anarchici, che ritenevano la vittoria un tributo doveroso alla loro superiore arte calcistica, ma che non avevano mai vinto nulla. Il Brasile del 1958 apparve, per la prima volta, una squadra, legata a precisi equilibri, in funzione dei quali, per esempio, un'ala sinistra intelligente e altruista come Mario Zagalo veniva preferita, nonostante la rabbiosa irritazione della critica e dell'opinione pubblica, al grande Pepe, dotato di un sinistro molto potente. Il modulo tattico, quattro difensori in linea, due centrocampisti di riferimento, quattro attaccanti, di cui due esterni e due centrali, etichettato come 4-2-4, apparve l'approdo più spettacolare dell'evoluzione del calcio.

29 giugno 1958, Råsunda Fotbollstadion, Solna
Le lacrime di emozione del 17enne Edson Arantes do Nascimento
pochi istanti dopo la conquista della prima Coppa Rimet da parte del Brasile
Quanto a Pelé, il suo ingresso in campo, dagli ottavi di finale in poi, conferì al Brasile una superiorità di tali proporzioni da non ammettere contraddittorio. Giocatore lunare, troppo distante dagli altri per ammettere paragoni, il giovane Pelé entrò subito nella leggenda per non uscirne più.

Il Mondiale del 1958, sesto della storia, si giocò in Svezia, designata (infrangendo per la seconda volta il criterio dell'alternanza fra Europa e Sud America) nel congresso della FIFA del 1954. Nel 1956 morì a Perugia il demiurgo dei Campionati del Mondo, Jules Rimet. Ai vertici della FIFA salì l'inglese Arthur Drewery, presto sostituito dal connazionale Stanley Rous. Il primo vantaggio che ne derivò alle quattro confederazioni britanniche fu quello di non figurare nello stesso girone di qualificazione e quindi di potersi affacciare in forze alla fase finale. Di questo dettaglio, in apparenza marginale, finì per fare le spese l'Italia, nel momento più buio della propria storia calcistica. Gli azzurri mancarono per la prima volta la fase conclusiva di un Mondiale, eliminati dall'Irlanda del Nord. Anche l'Uruguay, battuto dal modesto Paraguay, non superò i gironi eliminatori, sicché le uniche due nazionali detentrici di due titoli, e dunque in grado, teoricamente, di aggiudicarsi la Coppa Rimet, furono entrambe costrette ad abbandonare la scena, per mano di due 'paria' del calcio.

L'edizione del 1958 registrò l'importante ritorno dell'Argentina assente da venti anni nella rassegna iridata, nonché la prima partecipazione dell'URSS. I sovietici infatti sino ad allora si erano limitati alla ribalta olimpica che offriva comodi e decisivi vantaggi al loro dilettantismo di Stato. Nel frattempo, si era notevolmente allargata la base al punto che ben 53 nazioni sottoscrissero la propria partecipazione, rendendo così per la prima volta realmente competitiva la fase di qualificazione, sino allora poco più che accademica. In Europa, oltre all'Italia, caddero la Spagna, il Belgio, l'Olanda, la Svizzera; in Sud America la vittima più illustre fu l'Uruguay. Ma il vero caso scoppiò a proposito dell'unico posto a disposizione di Asia o Africa. La presenza di Israele, che non intratteneva rapporti diplomatici con la maggioranza dei paesi di quei continenti, provocò una serie di forfait: prima la Turchia, poi l'Egitto e il Sudan. Israele si ritrovò così promosso, senza aver giocato un solo minuto. A quel punto la FIFA, per bloccare gli israeliani, scovò una negletta norma regolamentare secondo la quale "nessuna squadra (a eccezione di quelle qualificate di diritto) avrebbe potuto giocare la fase finale, se non avesse disputato almeno una partita di qualificazione". Fu quindi presa la decisione di opporre Israele a una delle seconde classificate nei gironi europei. Il sorteggio favorì il Galles, che si impose nel doppio confronto ed eliminò uno scomodo cliente dal ranking conclusivo.

28 giugno 1958, Ullevi Stadion, Göteborg
Just Fontaine è portato in trionfo dai connazionali dopo aver rifilato quattro reti
alla Germania campione in carica nella finale per il 3° posto: con 13 reti "Justo"
detiene tuttora il record di capocannione in una sola edizione dei Mondiali
Il Brasile costituì indubbiamente l'evento di quel Mondiale, grazie a fuoriclasse come l'oriundo italiano José Altafini, detto 'Mazzola' (in onore del grande Valentino) che, avendo firmato per il Milan prima della fase finale, fu boicottato e sostituito nel ruolo di centravanti da Vavá. Vi furono anche altre protagoniste di rilievo quali la Svezia, padrona di casa, che per l'occasione aveva fatto largo ricorso ai suoi professionisti impegnati all'esterno, la Francia di Kopa e del terribile goleador Just Fontaine, e la Germania Ovest, che onorò il titolo di quattro anni prima completando il quartetto delle semifinaliste.

Brasile e Francia diedero vita a una spettacolare battaglia a suon di gol, che vide i sudamericani imporsi per 5-2, con una tripletta di Pelé, mentre la Svezia venne a capo dei tedeschi grazie alle reti di tre campioni che militavano nel Campionato italiano: Gunnar Gren, Kurt Hamrin e Lennart ('Nacka') Skoglund. La finalissima fu senza storia. Al 3′ la Svezia andò in gol con un tiro rasoterra di Nils Liedholm, ma il Brasile presto pareggiò e al 32′ si portò in vantaggio, vincendo infine per 5-2. Pelé firmò altri due gol, di mirabile fattura. Re Gustavo scese dalla tribuna d'onore per complimentarsi personalmente con quel giovane fenomeno. La foto di Pelé piangente di gioia, consolato dal grande Didí fece il giro del mondo annunciando che era nata una stella.

* Tratto da I Campionati Mondiali, in Enciclopedia dello Sport, Treccani, 2002 (© Treccani)

1962 | Di nuovo il Brasile

di Adalberto Bortolotti *

Rispetto alle precedenti spettacolari edizioni, il Campionato del Mondo del 1962 in Cile segnò una brusca inversione di tendenza. Vi ebbero un ruolo determinante la violenza e la brutalità in campo e si fecero pesantemente sentire i condizionamenti esterni. Il livello tecnico fu il più basso sino allora toccato in un torneo mondiale. Un Brasile logoro e appannato, privo del suo atleta più valido, arrugginito nei suoi uomini cardine, con una nuova impostazione tattica, tale da consentire l'impiego di veterani in declino atletico, riuscì tuttavia a replicare il trionfo di quattro anni prima per la totale assenza di avversari realmente competitivi. Il terzo posto del Cile, fattosi avanti fra soprusi e prevaricazioni, ben al di là del suo intrinseco valore tecnico, simboleggiò la caduta di tono e di stile della Coppa Rimet dopo l'esemplare edizione svedese del 1958, che era stata un autentico inno alla sportività.

2 giugno 1962, Estadio Nacional de Chile
La battaglia di Santiago
La designazione del Cile quale paese ospitante al congresso della FIFA tenuto a Lisbona nel 1956, aveva colto tutti di sorpresa, malgrado fosse scontata la sede sudamericana dopo due consecutivi Campionati in Europa. Il Cile non godeva di una florida economia ed era esposto a forti tensioni politiche con il partito conservatore ancora al potere, ma minacciato da un lato dai riformisti di Eduardo Frei e dall'altro dalle prime organizzazioni della sinistra proletaria. Proprio per controllare una situazione interna così esplosiva, il governo aveva investito senza risparmio in un avvenimento che potesse concentrare, per quasi un mese, gli occhi del mondo sul Cile e nel contempo suscitare un'ondata di nazionalismo capace di superare le divisioni interne. La vigilia fu tormentata. Nel 1960 un violento terremoto provocò tali danni in tutto il paese che la FIFA prese seriamente in esame l'ipotesi di una candidatura alternativa e solo le garanzie offerte da Carlos Dittborn Pinto, un dirigente di origine tedesca responsabile dell'organizzazione, valsero al Cile la conferma. Dittborn, con lo slogan "proprio perché non abbiamo più niente, riusciremo a rifare tutto", persuase i burocrati calcistici e si impegnò a tal punto in una corsa contro il tempo da subirne uno stress micidiale che, a un mese esatto dall'inizio del torneo, gli provocò un infarto. Aveva appena 38 anni e tutto il Cile pianse la sua scomparsa. Nonostante l'entusiasmo di Dittborn e l'impegno profuso nell'impresa, le gravi carenze di alcune strutture non furono colmabili. Alcune sedi, come Rancagua, centro minerario di 50.000 abitanti, e Arica, in una zona desertica ai confini del Perù, lontana 2000 km dalla capitale, risultarono inadeguate.

Le 57 iscrizioni costituirono il nuovo record. Nelle qualificazioni si persero due protagoniste del 1958: la Svezia, che si era classificata seconda, e la Francia, arrivata terza. L'Italia accolse con favore il sorteggio che l'aveva inserita in un girone con Germania Ovest, Cile e Svizzera: avrebbero passato il turno le prime due classificate e solo i tedeschi apparivano temibili. Affidata alla guida tecnica di Paolo Mazza, il presidente della Spal, l'Italia cominciò contro la Germania Ovest e si adeguò volentieri al pareggio. L'impresa maggiore sembrava compiuta.

Il Cile però aveva puntato troppo su quel Mondiale, per lasciarlo al primo turno. Il pubblico affollava gli stadi soltanto quando giocava la squadra di casa. La FIFA dovette tenerne conto al momento di designare gli arbitri. Fu un arbitro inglese, Ken Aston, a decidere le sorti di Cile-Italia e gli inglesi, dalla morte di Rimet, detenevano saldamente il potere calcistico internazionale. Ma l'Italia scontò ancor più gravemente quello che può definirsi un 'autogol': due giornalisti italiani, nelle loro corrispondenze dal Cile, avevano messo in rilievo le misere condizioni di sottosviluppo in cui si trovava il paese, la corruzione e la prostituzione dilaganti, il contrasto fra la ricchezza esagerata di pochi e la povertà inaccettabile di molti. Quelle inchieste innescarono reazioni furibonde contro l'Italia che attirò su di sé antipatie e risentimenti. Aston, che aveva già diretto nella partita inaugurale il Cile, vittorioso contro la Svizzera, fu designato, dunque, anche per Cile-Italia. Quando Lionel Sanchez causò un grave infortunio all'oriundo argentino Humberto Maschio con un diretto al volto, l'arbitro non prese provvedimenti, ma espulse Mario David e Giorgio Ferrini che avevano tentato di reagire. Ridotta in nove uomini, l'Italia resistette all'attacco cileno sino a un quarto d'ora dalla fine, poi cedette e subì due gol. Riprese la via di casa (dopo l'inutile successo sulla Svizzera, con doppietta dell'esordiente Giacomo Bulgarelli), mentre il Cile proseguiva la sua marcia tra le generali manifestazioni di gioia.

30 maggio 1962, Estadio Sausalito, Viña del Mar
Garrincha stende e aggira un difensore messicano sotto gli occhi di Pelé
Il Brasile aveva cominciato battendo a fatica il Messico, con gol di Zagalo e Pelé, ma poi aveva pareggiato 0-0 con la forte Cecoslovacchia; in quella partita aveva perduto Pelé, vittima di un serio infortunio che lo escluse dal prosieguo del Mondiale. Contro la Spagna, guidata da Helenio Herrera, i brasiliani furono a un passo dal tracollo e vennero salvati dall'arbitro Sergio Bustamante, cileno. Da quel momento, la marcia dei campioni del mondo, che al posto di Pelé avevano inserito il giovane Amarildo, diventò più semplice. Contro l'Inghilterra, nei quarti, il gioco del fuoriclasse Manuel Garrincha bastò per vincere i maestri, ma poi la semifinale con il Cile (che nei quarti aveva eliminato l'URSS, colpendo Lev Jascin, il famoso portiere sovietico, con un forte calcio in testa) risultò una vera battaglia, con espulsioni di Jada e Garrincha, centrato, quest'ultimo, uscendo dal campo, da una sassata al capo che necessitò di quattro punti di sutura. Il Brasile si impose 4-2, grazie alla fermezza dell'arbitro peruviano Arturo Yamasaki, di origini giapponesi. In una finalissima povera di pubblico contro la solida Cecoslovacchia, il Brasile sfruttò la giornata negativa del portiere ceco, Viliam Schroif, di solito il migliore della squadra, e vinse 3-1. Alla finale partecipò anche Garrincha che, squalificato in seguito all'espulsione nella partita precedente, fu riammesso, in un clima di autentico giallo internazionale, grazie all'intervento del governo brasiliano; l'ennesima irregolarità di un Mondiale tutto da dimenticare.

* Tratto da I Campionati Mondiali, in Enciclopedia dello Sport, Treccani, 2002 (© Treccani)

1966 | L'Inghilterra vince con un gol fantasma

di Adalberto Bortolotti *

La scelta dell'Inghilterra come sede dell'ottava Coppa Rimet costituì una delle rare decisioni spontanee e unanimi nella storia della FIFA, così spesso dominata dai compromessi. La decisione era stata ufficializzata nel congresso del 1962, a Santiago, alla vigilia dei Mondiali cileni. L'anno successivo, 1963, la mitica FA, la Football Association inglese, avrebbe compiuto i suoi cento anni di vita e di attività. La scelta voleva dunque essere un ritorno alle origini, un doveroso omaggio alle radici del calcio moderno, al paese dove era nato un movimento poi diffusosi a macchia d'olio e ormai avviato a dimensioni universali.

11 luglio 1966, Empire Stadium, Wembley
L'emozione distraente dei fanciulli durante la cerimonia di inaugurazione
Le numerose sconfitte subite avevano convinto gli inglesi che il loro prestigio calcistico andava consolidato con qualche risultato concreto. Il Mondiale di casa era l'occasione del riscatto. Così al ritorno dal Cile, dove in verità la nazionale inglese non si era comportata peggio di altre volte, il commissario tecnico Walter Winterbottom, sopravvissuto a tutte le disfatte, fu costretto ad abbandonare il suo incarico. Al suo posto fu chiamato un ex giocatore dai modi bruschi e dal carattere indocile, Alf Ramsey, che era stato il terzino destro nella memorabile débacle con gli USA al Mondiale del 1950 in Brasile. Ramsey non conosceva la diplomazia né le buone maniere, ma aveva le idee chiare. Dopo l'investitura, convocò una conferenza stampa e dichiarò: "L'Inghilterra vincerà la prossima Coppa del Mondo e io ho tre anni e mezzo per portare a termine l'opera. Per cui, d'ora in avanti, lasciatemi lavorare senza farmi perdere del tempo". L'Inghilterra scoprì così la tattica, prima tanto disprezzata, ripudiando il 'sistema' puro, il WM, che proprio gli inglesi avevano inventato e imposto al mondo. Ramsey adottò il modulo 4-4-2, inviso alla critica e all'opinione pubblica, in quanto prevedeva l'abolizione delle ali, un vanto del calcio britannico: due 'torri' centrali in attacco, un centrocampo folto, marcature asfissianti e spesso intimidatorie, in linea con il calcio fisico che stava ovunque prendendo il sopravvento. Con il tempo e con i risultati, Ramsey riuscì a fare accettare quell'innovazione. Il titolo mondiale, conquistato in linea con le promesse, gli valse la gloria e il titolo di baronetto, magari non proprio congeniale all'aplomb del personaggio.

28 luglio 1966, Empire Stadium, Wembley
Bestiario sacro, e nero: la Pantera e il Ragno
Anche l'Italia aveva affrontato la sua trasformazione. La nazionale era stata consegnata a Edmondo Fabbri, un tecnico capace, pur se talvolta ombroso. Con Fabbri era nato il 'clan Italia', un modo per sottrarre la nazionale all'influenza condizionante dei club. I risultati erano stati eccellenti e la spedizione in Inghilterra era accompagnata da grandi speranze. Il favorito d'obbligo restava però il Brasile, reduce da due titoli consecutivi. Ma era un Brasile logoro, i vecchi atleti erano stanchi e i giovani talenti non erano ancora pronti per prenderne il posto. Inoltre il nuovo tipo di calcio, che privilegiava la forza alla tecnica, non si confaceva ad atleti così estrosi.

Nel mondo del calcio emergevano forze nuove, ma la FIFA era restia ad accoglierle. Ancora una volta un solo posto, fra le 16 finaliste, era destinato ad Africa, Asia e Oceania insieme. L'Africa si ribellò ritirandosi in blocco. L'Asia, anziché accodarsi, fu ben lieta di restare padrona del campo e in Inghilterra arrivò la Corea del Nord, che riuscì a battere l'Australia, rappresentante oceanica, con un eloquente 9-2. Nessuno, in Italia, immaginò che quella matricola dell'Estremo Oriente avrebbe incrociato in modo così determinante la rotta della nazionale azzurra.

Sul piano delle partecipazioni, si preparava un'edizione storica. Argentina e Uruguay tornavano sulla scena, sicché tutti i paesi che avevano già conquistato una Coppa del Mondo erano presenti. Uruguay, Brasile e Italia, che avevano vinto il titolo già due volte, concorrevano alla conquista definitiva della Coppa Rimet. L'11 luglio 1966 lo stadio imperiale di Wembley tenne a battesimo l'ottavo Campionato del Mondo con un autentico galà: Inghilterra-Uruguay, gli inventori del calcio contro i primi campioni del mondo. Fu una partita molto tattica e poco spettacolare, chiusa da uno 0-0 che tutti parvero gradire. Il calcolo si rivelò esatto, inglesi e uruguayani si qualificarono a spese di Francia e Messico. Nelle tre partite del girone, l'Inghilterra di Ramsey non subì neppure un gol.

Fu un Mondiale di grandi personaggi: l'inglese Bobby Charlton, i tedeschi Helmut Haller e Franz Beckenbauer, il portoghese Eusebio, il sovietico Lev Jashin. Su tutti avrebbe dovuto primeggiare Pelé, che però ebbe appena il tempo di segnare un gol, contro la Bulgaria, e subito dopo venne aggredito dal suo marcatore, Dobromir Zechev, che con un calcio gli causò un serio problema al ginocchio. Senza Pelé, il Brasile venne battuto dall'Ungheria e poi eliminato dal Portogallo. La prima favorita tornava subito a casa.

L'Italia non fece una figura migliore. Esordì battendo il Cile, una rivincita a quattro anni di distanza, e poi perse di misura con l'URSS. Avrebbe comunque passato il turno se solo avesse pareggiato con la sconosciuta Corea, ma quella sembrò quasi una partita stregata: Bulgarelli, mandato in campo malgrado un infortunio non riassorbito, fu presto costretto a uscire lasciando l'Italia in dieci, la Corea andò in gol con Pak Doo Ik, e gli azzurri non riuscirono a rimontare. Più che un'eliminazione, fu una vergogna nazionale. Il termine 'Corea' assunse da allora in poi il significato di una mortificante disfatta. Al ritorno in Italia, la comitiva, che pure aveva cambiato programma per sottrarsi alle contestazioni, dovette subire all'aeroporto di Genova un umiliante lancio di pomodori. Con questo grave insuccesso si concluse la gestione del commissario tecnico Fabbri.

30 luglio 1966, Empire Stadium, Wembley
I colori, indimenticabili
Nei quarti di finale, l'Inghilterra riuscì a battere l'Argentina in una partita molto violenta, mentre la Germania Ovest travolse l'Uruguay: il Sud America tornava a casa e l'Europa era padrona del campo. La Corea fu spazzata via dal Portogallo, con i gol di Eusebio, 'tiratore scelto' del torneo. In semifinale, l'Inghilterra trovò notevole resistenza nel Portogallo, anche se l'accanita marcatura di Nobby Stiles eliminò dalla partita Eusebio. Bobby Charlton segnò due gol, Eusebio dovette limitarsi a realizzare su rigore: fu il primo gol subito da Gordon Banks, il portiere inglese, dopo 542 minuti di imbattibilità. La Germania Ovest, in un pesante scontro fisico, si impose sull'URSS.

Il 30 luglio 1966 la regina Elisabetta si presentò nel palco reale di Wembley, per assistere al trionfo annunciato della nazionale di casa. Ma non fu facile: un gol del tedesco Wolfgang Weber all'ultimo minuto di gioco gelò l'esultanza degli inglesi, siglando il 2-2 che costrinse le squadre ai tempi supplementari. Su servizio di Alan Ball, l'attaccante inglese Geoff Hurst tirò violentemente a rete, il pallone picchiò sotto la traversa, rimbalzò sul terreno (probabilmente senza aver superato la linea) e tornò in campo. L'arbitro Gottfried Dienst consultò il guardalinee, Tofik Bakhramov. Dopo un breve conciliabolo, il gol fu concesso. Sullo slancio, gli inglesi segnarono ancora, ma la loro vittoria rimase legata a quel 'gol fantasma'. Fu in ogni caso una splendida finale, che riscattò in parte un Mondiale non sempre all'altezza delle attese, inquinato da troppi episodi sospetti e dominato da un calcio atletico che a volte era sfociato nel gioco violento.

* Tratto da I Campionati Mondiali, in Enciclopedia dello Sport, Treccani, 2002 (© Treccani)

1970 | Il Brasile fa terno

di Adalberto Bortolotti *

Città del Messico non era ancora la metropoli più inquinata del mondo, quando, il 31 maggio 1970, decollò il primo Mondiale in altura. Il fascino degli altipiani, l'allegria e le contraddizioni di un paese sempre in bilico fra l'oleografia e i fermenti sociali, la musica assordante dei mariachis: difficile pensare a un Campionato del Mondo più pazzo e più bello.

Nel congresso di Tokyo del 1964 era stato deciso finalmente di ripristinare il principio dell'equità distributiva. L'Europa, sino a quel momento, aveva interpretato pro domo sua il criterio dell'alternanza continentale con l'America, con il beneplacito della FIFA. Il Messico prevalse sull'Argentina per una considerazione di ordine pratico: nel 1968 Città del Messico avrebbe ospitato i Giochi Olimpici e lo sforzo organizzativo effettuato per quella competizione con la creazione di nuovi impianti e strutture poteva essere sfruttato anche per la rassegna universale del pallone. Il criterio di abbinare Olimpiadi e Mondiali sarebbe stato ripetuto con Monaco e la Germania Ovest, all'edizione successiva.

11 giugno 1970, Estadio "Luis Dosal", Toluca
Il raid di Gigi Riva nell'area rossa di Israele
L'Africa, con la protesta e il boicottaggio del Mondiale inglese del 1966, aveva ottenuto un primo risultato: al congresso di Casablanca del 1968, il Comitato organizzatore della Coppa del Mondo stabilì che, fra le 16 finaliste di Messico 1970, l'Asia e l'Africa avrebbero avuto un posto ciascuna; avrebbero avuto un posto l'America centro-settentrionale (oltre al Messico, qualificato di diritto), tre il Sud America, otto l'Europa; l'Inghilterra naturalmente avrebbe partecipato come campione in carica. Settanta iscrizioni premiarono questa attesa apertura. Fu anche introdotta una norma di fondamentale importanza: la possibilità di effettuare nell'arco della partita due sostituzioni, senza distinzione di ruolo. Su queste premesse cominciò un Mondiale che fragorosamente rovesciò l'ultimo verdetto. Brasile e Italia, le due maggiori deluse del 1966, che in Inghilterra non avevano neppure superato il primo turno, si ritrovarono a giocare la finalissima.

L'Italia, dopo l'insuccesso con la Corea, era stata affidata a Ferruccio Valcareggi, che raccolse subito risultati eccellenti, a cominciare dal titolo europeo del 1968, la prima conquista azzurra nel dopoguerra. La squadra giocava un calcio essenziale, basato su un ferrea difesa e su un micidiale contropiede. Il 'genio' di Gianni Rivera e 'il senso del gol' di Gigi Riva erano le sue armi più efficaci. Superò agevolmente le qualificazioni, che erano state fatali per molte nazionali europee di primo piano: il Portogallo, terzo nel 1966, la Spagna, la Jugoslavia, l'Ungheria, l'Olanda (che pure era già fortissima a livello di club), la Francia. Dal Sud America arrivarono ancora una volta Brasile e Uruguay, ma non l'Argentina, eliminata dall'emergente Perù, che aveva come tecnico il brasiliano Didí, campione nel 1958 e nel 1962. Un suo ex compagno di squadra e di trionfi, Mario Zagalo, guidava invece la nazionale brasiliana, nelle cui file il trentenne Pelé inseguiva il suo terzo titolo personale e l'apoteosi di una carriera unica.

14 giugno 1970, Estadio Nou Camp, León
La rivincita: Gerd Müller "mata" l'Inghilterra
Il Marocco rappresentava l'Africa, mentre le squadre asiatiche e oceaniche erano state battute da Israele, inserito a forza nel loro gruppo. El Salvador e Honduras, in lizza per il calcio centroamericano, ruppero i rapporti e si dichiararono guerra: scoppiò un vero conflitto militare, con numerose vittime. El Salvador ottenne infine l'accesso alla fase finale dove, per la verità, la sua prestazione non parve giustificare l'accanimento dimostrato per partecipare: perse tutte e tre le partite, subendo nove gol senza segnarne nessuno.

Lo stadio Azteca era all'epoca il più bello del mondo. Centomila spettatori lo affollarono in festa, quando il Messico aprì il Mondiale nella partita con l'URSS che si concluse 0-0. Tutta la fase preliminare servì a liberare il torneo dalle squadre meno valide. Ai quarti di finale non c'erano più comprimari. L'Italia, che aveva cominciato senza grandi clamori (un solo gol nelle tre partite del girone), dovette affrontare la padrona di casa, come era già accaduto in Cile nel 1962. Questa volta però le cose si svolsero diversamente: l'Italia aveva una squadra molto più temprata, refrattaria alle provocazioni e all'ambiente, e piegò nettamente il Messico alla distanza. Fondamentale fu il ritorno di Rivera, che inizialmente era stato allontanato dalla squadra per aver pubblicamente contestato il capodelegazione Walter Mandelli. Rivera e Mazzola, i due simboli di Milan e Inter, erano in lizza per lo stesso ruolo. Valcareggi, saggiamente, decise di risolvere la questione inventando la 'staffetta': un tempo a testa, Mazzola all'inizio, quando c'era da combattere, Rivera dopo, a dare il colpo di grazia agli avversari provati dall'altezza. A 2000 m, infatti, il calcio atletico diventava relativo, imponendo ritmi bassi, congeniali ai giocatori tecnici. Per questo il Brasile dettava legge. Il 'quarto' più spettacolare fu quello che oppose Inghilterra e Germania Ovest, la rivincita della finalissima di quattro anni prima: l'Inghilterra, in vantaggio di due gol, decise di far riposare il suo 'asso' Bobby Charlton, perché fosse in perfetta forma per la semifinale. La Germania Ovest rimontò e vinse per 3-2 nei tempi supplementari. Cadde così una squadra inglese che era forse più forte di quella che aveva vinto il titolo sui prati di casa. Nella Germania Ovest furoreggiava un attaccante implacabile, un bomber sempre in grado di segnare, Gerd Müller.

Le semifinali rappresentarono un raffinato galà: ancora una rivincita, questa volta fra Brasile e Uruguay, le finaliste di Brasile 1950. Gli uruguayani, in vantaggio per 1-0, furono vicini a ripetere la beffa di allora, ma il Brasile rimontò e vinse 3-1. Dall'altra parte, in un Azteca assolato, l'Italia giocò contro la Germania Ovest e il punteggio rimase fermo sull'1-0 per gli azzurri sino ai minuti finali della partita. Al terzo minuto di recupero i tedeschi pareggiarono e si dovette ricorrere ai tempi supplementari. Müller portò in vantaggio i tedeschi e Burgnich rispose; Riva trascinò di nuovo avanti l'Italia e ancora una volta Müller rimediò. Sul 3-3, un magistrale tocco al volo di Rivera chiuse la partita, entrata nella leggenda del calcio.

21 giugno 1970, Estadio Azteca, Ciudad de México
Tri campeão
La finale vide l'Italia resistere al Brasile per un tempo e poi crollare sotto i colpi dei grandi rivali e sotto la stanchezza per quella semifinale lunghissima. Valcareggi non attuò la staffetta e Rivera entrò in campo soltanto a sei minuti dalla fine: in sostanza il maggiore protagonista di Italia-Germania Ovest rimase fermo ai box. In Italia divampò la rabbia e l'indignazione, sicché i reduci da quella grande impresa al loro ritorno in patria furono contestati e insultati, a eccezione di Rivera, che venne accolto trionfalmente.

Pelé, intanto, aveva vinto il suo terzo Mondiale, a dodici anni di distanza dal primo. Con il terzo titolo, il Brasile si aggiudicò in via definitiva la Coppa Rimet. Fu un verdetto onestissimo perché quella era una grande squadra, a trazione anteriore, con una prima linea formata da cinque giocatori che nei rispettivi club portavano tutti il numero dieci. L'altura aveva favorito il calcio danzato dei brasiliani, ma rispetto agli ultimi due Mondiali il livello tecnico di Messico 1970 si era decisamente elevato. Anche la media-gol, quasi tre a partita, era stata la migliore dopo quella del 1954.

* Tratto da I Campionati Mondiali, in Enciclopedia dello Sport, Treccani, 2002 (© Treccani)